mercoledì 12 luglio 2023

Funerale di Arnaldo Forlani

Signor Presidente della Repubblica, cari figli Alessandro, Luigi e Marco, cari nipoti e familiari, autorità, sorelle e fratelli tutti,

ci stringiamo oggi attorno ad Arnaldo Forlani per dargli il nostro ultimo saluto mentre lui compie il suo ultimo tratto che lo separa dalla Gerusalemme del cielo.

Quante volte Arnaldo ha ascoltato questa pagina dell’Apocalisse! E, come credente, quei cieli nuovi e quella terra nuova li ha sempre avuti davanti, certo solo in visione, come meta della sua vita, ma anche della stessa azione politica. La visione della nuova Gerusalemme come destinazione di tutti i popoli, non riguarda solo la fine della storia: essa orienta già da ora l’azione del credente.

Questa pagina biblica che ascoltiamo in questa celebrazione illumina non solo il senso della morte – quella di Arnaldo, la nostra, di tutti – come passaggio verso la destinazione della storia, appunto la Gerusalemme del cielo ove anche la morte sarà vinta per sempre. E questa luce illumina anche il buio di questo tempo segnato tragicamente da guerre, stragi, distruzioni, che lasciano spaesati e senza più visioni.


Ecco, vorrei ricordare Arnaldo Forlani proprio a partire di qui, ricordarlo come uomo di pace. Lo fu non solo da ministro degli Esteri – primo governante europeo a visitare una Cina ancora sconvolta dalla scomparsa di Mao – ma in tutta una lunga attività politica, attentissimo alle relazioni multilaterali, alla cooperazione internazionale e all’europeismo. Voleva che l’Europa portasse un proprio originale contributo per lo sviluppo e la pace nel mondo e fu anche, per un breve periodo, ministro per i rapporti con le Nazioni Unite. Tutto ciò aveva una radice profonda che affondava nel terreno della sua formazione giovanile nell’Azione Cattolica e nella Fuci. Ed appariva appassionata quando parlava di La Pira, un credente che ha sempre avuto nel cuore la visione finale della Gerusalemme del cielo: in lui – diceva – era “sempre presente il disegno biblico finalizzato alla pace e un nuovo ordine: le spade convertite in vomeri”.

Visioni come questa spingevano Arnaldo Forlani a dare un esempio di rigore, di serietà e di sobrietà. Non ci ha lasciato solo un’importante eredità politica, ha anche compiuto un’opera che resta nelle fibre profonde della società italiana. E’ bene dirlo: se l’Italia è diventata così diversa – in meglio – da come era nel 1945 è anche per la sua opera e per quella di tanti altri credenti e non impegnati con serietà a servire il Paese. Fin dalla giovinezza Arnaldo lo ha fatto, quando, ancora ventenne, negli anni della liberazione entrò nella clandestinità e partecipando alla resistenza. E ha continuato a servire con fedeltà il Paese. Fece suo il vecchio motto “giusto o sbagliato è il mio Paese”.

Sorelle e fratelli, oggi consegniamo nelle mani misericordiose di Dio un servitore della causa di questo Paese, addolorati, certo, ma sereni, come le Sante Scritture ci assicurano che “le anime dei giusti sono nelle mani di Dio e nessun tormento le toccherà” (Sal 3,1). Ed è bene ricordare che quanto Arnaldo ha fatto con passione e zelo per l’Italia – assieme a tanti altri – conta ancora, anzi suggerisce uno stile di vita. In una realtà conflittuale e polarizzata come quella in cui viviamo, appare forse più chiara l’importanza della sua opera costante per conciliare posizioni diverse, per avvicinare forze contrapposte, per tessere alleanze tra mondi anche culturalmente lontani. Tutto ciò che la buona politica avvicina, ricompone, collega, migliora la vita di una società e, al tempo stesso, fa accumulare a chi la promuove un tesoro prezioso che resta patrimonio comune.

Il Paese ha bisogno di visioni che uniscano.
Nella sua solida formazione cristiana Arnaldo ha trovato i motivi ispiratori del suo impegno politico che lui riassumeva in due parole: dovere e passione. Ci vogliono entrambi per far fruttare i talenti ricevuti, come lui ha fatto. Il senso del dovere, anzitutto. Il talento di cui parla il vangelo non è qualcosa di proprio ma, appunto, un dono che si riceve e la cui proprietà resta sempre di un Altro. E qui il senso cristiano dell’esistenza ha segnato con decisione la sua azione politica. E poi anche passione. Nell’impegno per la società c’è bisogno di creatività, di determinazione, di pazienza, di coraggio e di speranza. Si, dovere e passione, non spingono a seppellire i talenti sottoterra, come avviene quando li usiamo per noi stessi, ma spingono a investirli perché producano molti frutti per il bene degli altri, magari correndo qualche rischio personale, accettando rinunce e mettendo in conto anche sconfitte, croce compresa.
Ho conosciuto meglio Arnaldo Forlani quando si abbatté su di lui la tempesta giudiziaria. Di quei momenti ricordo la sua dignità, la mitezza ed anche l’equilibrio. Certo, in un mare di dolore e di sconcerto. Mi colpi la sua fiducia in Dio: si affidò alle sue mani, come il salmista: “anche se vado in una valle oscura non temo alcun male, perché tu sei con me” (Sal 23, 4). E sentiva forte l’amicizia della sua famiglia e degli amici. Molti hanno sottolineato l’inconsistenza delle accuse che gli sono state rivolte, e di certo non si è arricchito con il suo impegno pubblico. E neppure si è sottratto all’azione della magistratura rispettandone l’azione, interpretando, poi, tutto come un effetto amaro del clima devastante di quegli anni. Ma lui – così disse – volle bere “la cicuta fino in fondo”.

Tutto ciò non intaccò, anzi rafforzò, la sua attenzione – ne fece uno stile umano e politico – a non indebolire le istituzioni sulle quali si fonda la convivenza civile e il bene di tutti. Il suo rispetto anche per chi aveva idee diverse dalle sue, è stato un contributo sostanziale allo sviluppo e al consolidamento della democrazia nel nostro Paese. Arnaldo ha sempre mostrato un grande senso delle istituzioni tutte le volte in cui è stato Presidente e vicepresidente del Consiglio o ministro. La sua sobrietà e il suo rigore si univano in lui a una viva sensibilità per i problemi sociali, più volte ne abbiamo parlato assieme, anche perché da giovane iniziò come sindacalista nella corrente cristiana nella CGL, allora unitaria. Era sempre attento agli effetti pesanti sulla vita di tante persone che avevano gli squilibri del sistema economico – come, in Italia, quelli tra città e campagna, tra Nord e Sud – e spesso i suoi discorsi rivelano una profonda sintonia con le encicliche sociali di Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II.

Arnaldo non si riconosceva nell’immagine di uomo di corrente. Era sì un uomo di partito, quando i partiti erano le forze vitali della democrazia italiana. E pensava che i partiti fossero chiamati a servire gli interessi non di una parte ma di tutti gli italiani. Uno dei motivi per cui ammirava tanto De Gasperi – me lo raccontò un giorno nei nostri colloqui – fu la commozione e la gratitudine che l’intero popolo italiano espresse per lo statista trentino mentre lo accompagnava nel suo ultimo viaggio da Trento a Roma. Lo scrisse anche: “è stato il momento di più intensa identificazione tra il nostro partito e l’Italia”. Il ruolo guida della De gli pareva una necessità, in presenza di un grande partito comunista in Italia. Era convinto che questo problema non potesse essere risolto con forzature, ma solo con “un lungo e difficile confronto” democratico: escludeva, perciò, la creazione di “un blocco d’ordine” che avrebbe lacerato in modo drammatico la società italiana e ha sempre contrastato l’uso politico della violenza da parte di gruppi con opposte matrici ideologiche.

E’ stato lui a coniare l’immagine del “potere discreto”, per indicare l’ideale di una limitazione del potere da parte anzitutto di chi lo esercita. Lo diceva anche per il suo partito: deve rispettare “anche nell’immagine una consuetudine di prudenza e di collegialità”. E, pur convinto dell’importanza dei partiti per la democrazia italiana, era però contrario alla concentrazione di tutto il potere nelle loro mani: fin dagli anni Sessanta, fu tra i primi a parlare di riforme istituzionali per correggere i limiti e le deformazioni del sistema politico, un problema di cui ancora oggi si continua a discutere, non sempre con il disinteresse e la lungimiranza di cui egli era capace.
Anche la sua uscita di scena – trent’anni fa; un’uscita totale e irrevocabile – è stata improntata all’ideale di un “potere discreto”. E° rimasto sempre fedele al partito in cui si è svolta la sua intera vicenda politica. Non ha condiviso le scelte di quanti, anche vicini a lui politicamente, hanno rotto quell’unità che per lui costituiva un bene superiore agli interessi personali: doveva sempre prevalere sulle divergenze di vedute e sui conflitti di potere, per ragioni più profonde di quelle solo politiche. Con la fine della Democrazia Cristiana, Forlani ha ritenuto definitivamente conclusa anche la sua esperienza politica, scegliendo un rigoroso riserbo.

Oggi, siamo in tanti attorno a lui, con la particolare solennità dei funerali di Stato, mentre si accinge a compiere l’ultimo tratto del suo pellegrinaggio verso la Gerusalemme del cielo. Lo circondiamo con l’onore dovuto ad un servitore dello Stato, con l’affetto che si ha per un amico e con la preghiera di chi crede in un Dio ch’è amore. Arnaldo troverà nel cielo le risposte che ha cercato lungo la sua vita, quelle alle domande suscitate dalle asprezze e dalle contraddizioni della politica e, soprattutto, troverà quelle risposte che riguardano il senso ultimo dell’esistenza umana e che la politica, da sola, non è in grado di dare. Troverà il. Suo Signore ad attenderlo. Ma ancor prima delle risposte sentirà il Signore che sull’ uscio gli dirà, come il Vangelo suggerisce: “Arnaldo, servo buono e fedele, prendi parte alla gioia del tuto padrone”. E ci piace immaginare l’amata moglie, Alma Maria, farsi avanti tra i tanti che lo aspettano per riabbracciarlo, e con lei i genitori la moglie e gli amici, numerosi, che gli fanno festa. E tu, caro Arnaldo, davanti a Dio ricordati di noi tutti, ricordati dell’Italia che hai amato e servito, ricordati dell’Europa e intercedi con insistenza perché venga presto la pace in Ucraina e perché tutti i popoli si incamminino verso quella fraternità universale che resta il sogno di Dio sul mondo. Amen.

lunedì 20 marzo 2023

Messa per il trigesimo della morte di Stanislaw Grygiel

 Care sorelle e cari fratelli,

sono passati trenta giorni da quando Stanislaw Grygiel, nel passaggio della morte, ha incontrato il Signore - finalmente “faccia a faccia” – e si è lasciato abbracciare da quel Signore che ha sempre cercato e servito e che ora lo stringe con tenerezza tra le sue braccia. Dio sa dare ai suoi figli una ricompensa ben più grande di quanto possiamo immaginare. Per l’intera vita Stanislaw lo ha servito con fedeltà e con quella passione anche intellettuale che aveva appreso dal suo maestro e poi amico – anche durante il pontificato – san Giovanni Paolo II.

Noi ci ritroviamo assieme oggi, giorno della memoria liturgica di San Giuseppe, per fare memoria di lui e intercedere presso il Signore. La festa liturgica di san Giuseppe ci aiuta a ricordare Stanislaw Grygel. Potremmo dire che, come Giuseppe, anche lui è vissuto in un momento complesso della vita della Chiesa come quello del secondo Novecento. Il Vangelo di Matteo che abbiamo ascoltato parla di un momento difficile della vita di Giuseppe: il ripudio segreto di Maria incinta non per opera sua. Nei Vangeli dell’infanzia si narrano i gravissimi problemi del Bambino appena nato e nei primi anni di vita. Giuseppe ascolta l’angelo e si affida alla sua parola. La sua obbedienza alla Parola dell’angelo non ha solo salvato la vita del Bambino ma l’ha anche accompagnato nel corso degli anni dell’adolescenza, almeno. E’ vero peraltro che Giuseppe non sempre comprese quel Figlio, sebbene l’amore non fosse mai diminuito. Fu l’amore a far cercare il dodicenne Gesù fino al tempio. Ma accettarono anche il rimprovero perché non avevano compreso quale fosse la sua missione. Giuseppe divenne comunque un particolarissimo “discepolo” di Gesù: lo protesse e lo presentò al mondo, all’interno della famiglia di Nazareth. Ricevette dall’angelo la missione di dare il nome a quel Bambino: “Tu lo chiamerai Gesù”. E questo – dire al mondo il nome Gesù, ossia “Dio è salvezza” – fa di Giuseppe il primo tra tuti noi. Sì, care sorelle e cari fratelli, la responsabilità di ogni cristiano è dire il nome di Gesù al mondo. E mi piace iscrivere in questa missione anche l’opera di Stanislaw Grygel: dire a tutti che quel Bambino di Nazareth è Gesù, ossia Dio che salva. E oggi nel cielo ne riceve la conferma personale.

Sono passati trenta giorni dalla sua morte. Ed ora Stanislaw vive in Dio. Con il nostro povero linguaggio terreno – ancora terreno e nel tempo che osa parlare dell’eterno di Dio qui sulla terra - potremmo dire che sono i primi trenta giorni di vita in Paradiso per lui. E’ bene ricordare la sua vita, le sue opere. Ma è ancor più prezioso vedere con gli occhi della fede la sua vita nel cielo, la vita da risorto con i risorti. Il nostro linguaggio è del tutto inadeguato. Ma la fede nella risurrezione della carne ci dice che è comunque una vita “umana”, risorta ma umana. Risorta anche nei sensi. Possiamo perciò immaginarlo con il Signore, con i santi del cielo, con l’amico Wojtyla che certo – il 20 febbraio scorso – stava sulla porta del cielo per accoglierlo, abbracciarlo e, con l’orgoglio del maestro, dell’amico e del Papa, presentarlo al Signore. Lui che lo aveva chiamato a Roma nel 1980 perché, assieme alla moglie Ludmila, lo aiutasse negli studi sul matrimonio, ora lo presenta a Dio perché lo riempia del suo amore. E i due potranno incontrarsi con gli altri amici e amiche della prima ora, quelli dell’impegno nel “dire Gesù” durante il difficile periodo comunista, ed anche con gli altri amici con i quali ha vissuto lunghi anni e non poche battaglie: tutti finalmente assieme a vivere in pienezza quell’amicizia che li aveva legati sulla terra.

Questa Santa Liturgia del trigesimo la sento così, come il dono di uno spiraglio della vita nel cielo. E anche noi in qualche modo ci uniamo, in quella comunione dei santi ch’è un cardine della nostra fede, con quella scena celeste e dire al Signore il nostro grazie per questo figlio che - tra gli innumerevoli meriti -, ha servito questo Istituto, fin dal suo inizio, con generosità e passione. Ne è stato - assieme al cardinale Caffarra e al cardinale Scola -, uno dei fondatori, nell’entusiasmo dell’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II con la decisa volontà di Giovanni Paolo II per una Chiesa che si facesse testimone del vangelo ovunque nel mondo. E questo nostro Istituto fece parte di questo grande “movimento” della Chiesa. Personalmente ricordo il Papa che mi parlava di questo Istituto e della sua missione alla quale chiamò anche il giovane professore e discepolo Stanislaw Grygel.

Al termine della Santa Messa il professor Kamposwki, che ringrazio sin da ora, ci offrirà alcune riflessioni sul professore, sul suo pensiero e sul suo servizio nell’Istituto che è continuato, con la direzione fino alla fine della cattedra “Karol Wojtyla”, fino alla fine, consapevoli della preziosità dell’insegnamento di questo Papa. Un nuovo Sinodo sulla famiglia ha spinto papa Francesco ha dare una nuova vita all’Istituto, in maniera analoga a come avvenne alla sua nascita. Non sono mancati problemi in questo momento di cambiamento, come del resto è facile che accada nei momenti dei grandi cambiamenti. Potremmo dire che è parte della vita della Chiesa, chiamata da Dio a comunicare il Vangelo di sempre in maniera che possano comprenderlo gli uomini del tempo, come amava dire san Paolo VI. Con la consapevolezza della presenza operante dello Spirito, che fece dire a san Giovanni XXIII a proposito del Concilio: “Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che lo comprendiamo meglio”

Ma oggi è nell’orizzonte della visione di Dio che tutto ricompone che vogliamo contemplare Stanislaw Grygel. E pensarlo come nostro fratello che ci ha preceduti nel Regno dei cieli e come intercessore presso il Padre, mentre noi, ancora sulla terra, conserviamo la sua memoria, cercando altresì di crescere nella responsabilità che fu di Giuseppe, ed anche sua, di continuare a dire in ogni modo, in tutti i modi possibili, in tutte le lingue possibili il nome di Gesù perché il mondo si salvi. Il professore interceda presso il Signore perché, nell’obbedienza a questa Chiesa di Roma, cresciamo nell’intelligenza della fede e nella testimonianza del vangelo del matrimonio e della famiglia.

lunedì 5 dicembre 2022

Ordinazione sacerdotale di Charles e Isayah

 Care sorelle e cari fratelli,

questa seconda domenica di Avvento, che ci invita a vivere l’attesa della venuta del Signore, è arricchita in questa santa liturgia, come abbiamo visto, dall’ordinazione presbiterale di Charles e Isayah, due figli della nostra Comunità.
Tutti siamo in festa per questo dono che il Signore fa alla Comunità, potremo dire che tutta è idealmente raccolta qui con al Comunità di Roma e quelle delle altre città e paesi che sono come rappresentate dai fratelli e sorelle del consiglio di presidenza. E si aggiungono anche i familiari di Charles e Isayah, le loro mamme, gli amici nigeriani che sono qui presenti. Benvenuti a tutti. Insieme gioiamo per questi due nuovi preti, che permettono alla Comunità di crescere nel servizio, particolarmente nella santa liturgia.
In questo tempo difficile la Parola di Dio richiama il deserto, nel quale il profeta annuncia la Parola di Dio. È il deserto che la guerra in Ucraina continua a rendere ancor più amaro, è il deserto degli altri conflitti dimenticati che si perpetuano nell’indifferenza di tutti. È il deserto nel quale cresce sempre più il numero dei poveri e degli esclusi.
Ecco, sorelle e fratelli, in questo deserto il dono di due preti è una grande e buona notizia, che si aggiunge a quella dei profughi giunti in questi giorni a Roma con i corridoi umanitari.
Abbiamo ascoltato dal Vangelo di Matteo: In quei giorni venne Giovanni Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: convertitevi, perché il Regno dei Cieli è vicino. Egli, infatti, è colui del quale aveva parlato il profeta Isaia quando disse: voce di uno che grida nel deserto, preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri.
In questo tempo, in questi giorni, la Comunità nel deserto di questo mondo è una profezia di pace e di fraternità e l’ordinazione di due preti è parte di questo ministero profetico.

Cari Charles e Isaiah,
voi oggi venite consacrati preti perché la profezia della Comunità sia più forte, più larga, più generosa, perché in tanti possano sfamarsi e dissetarsi all’altare del Signore e partecipare così alla gioia del regno che Gesù è venuto a inaugurare sulla terra.
E vorrei sottolineare in particolare il ministero dell’altare, il ministero che vi viene conferito perché possiate presiedere la santa liturgia. La Comunità, fin dal suo inizio, ha scelto di recarsi nelle periferie delle nostre città, all’inizio qui a Roma e poi ovunque nel mondo, di celebrare la santa liturgia.
Abbiamo visto radunarsi attorno all’altare un popolo santo, uomini e donne che erano dispersi e che sono diventati un popolo sacerdotale che canta la gloria di Dio, in particolare quando celebra i santi misteri. Voi con l’ordinazione presbiterale siete chiamati a presiedere la santa liturgia, che il Concilio Vaticano II, con grande sapienza definisce: fonte e culmine dell’intera vita cristiana.
Si, la santa liturgia è la prima opera della Chiesa e rappresenta il dono più prezioso che il Signore mette nelle mani del suo popolo, perché venga offerta a tutti. Fin dall’inizio la Comunità ne ha intuito la forza missionaria. Il prossimo anni celebreremo il 50esimo della prima liturgia a Primavalle. Da allora, ovunque è possibile la Comunità celebra la santa liturgia, perché in tanti si possano raccogliere.
Ci siamo lasciati trasportare dalla sua forza e dalla sua bellezza. Non l’abbiamo trattenuta per noi, l’abbiamo donata agli uomini e alle donne delle periferie delle nostre città, perché assieme potessimo tutti essere un unico popolo, che ascolta l’unica Parola e che si comunica all’unico calice e all’unico pane. È la prima opera da cui sgorga l’intera opera di salvezza.
Oggi il Signore vi consacra per essere fedeli e premurosi, certo non padroni dei santi misteri. È l’intera Comunità che celebra la santa liturgia, ma come quella sera nel cenacolo il Signore Gesù affidò i santi misteri nelle mani dei suoi discepoli, così anche questa sera li affida nelle vostre mani: fate questo in memoria di me.
Moltiplicare le liturgie vuol dire moltiplicare la misericordia. Voi siete giovani e lasciatevi travolgere dalla generosità della Comunità, perché il pane sia moltiplicato ovunque, particolarmente nei deserti di questo mondo.
Giovanni Crisostomo, nel suo trattato sul sacerdozio, ideatore della Divina liturgia che porta ancora il suo nome, affermava: L’altare si trova ovunque, in ogni angolo di strada, in ogni piazza. Si, l’altare dell’eucarestia è strettamente legato agli altari dei poveri, dei profughi, dei condannati a morte, dei bambini di strada, dei senza fissa dimora.

Carissimi Charles e Isayah,
è una grazia particolare essere consacrati preti qui, a Santa Maria in Trastevere, il Signore vi consegna il suo sogno sul mondo, che già Isaia aveva profetato. Un mondo di pace, dove il lupo dimorerà insieme con l’agnello, il leopardo si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme, e un piccolo fanciullo li guiderà.
Un piccolo fanciullo. È il bambino che ci prepariamo ad accogliere a Natale. È piccolo perché tutti possiamo accoglierlo, tutti, ma è forte, è forte e vuole donare a voi e all’intera Comunità ancor più forza. Tra poco vi stenderete a terra davanti a Lui, e noi anche idealmente con voi, mentre invochiamo da Dio la sua grazia perché possiate essere consacrati al suo servizio per la salvezza di tutti i popoli. E così sia.

martedì 28 giugno 2022

Funerale di Ciriaco De Mita

 Ci ritroviamo oggi, in questa chiesa, la chiesa del Gesù, per pregare, a trenta giorni dalla sua morte, Ciriaco De Mita. Abbiamo scelto di celebrare questa santa liturgia qui al Gesù, la chiesa vicina alla sede storica della Democrazia Cristiana, nella convinzione che quel che viviamo, che edifichiamo, i legami che stringiamo non solo non vengono annullati, inghiottiti dalla morte, ma sono parte di quella risurrezione della carne che per noi cristiani sta nel cuore della fede. Quanta storia della politica dei democristiani ha visto questa chiesa! La vicinanza fisica dei due luoghi ci spinge a ricordare quanto l’ispirazione cristiana abbia inciso nell’animo di Ciriaco De Mita anche nel versante dell’impegno politico.

Oggi, il nostro radunarci attorno all’altare è segnato anche dal ricordo – che si fa anche preghiera – di Ciriaco, un amico che abbiamo conosciuto e stimato, con il quale non è mancata neppure una appassionata dialettica perché la vita, anche quella della politica, non fosse fatta di parole, “Signore, Signore”, ma di fatti, di impegno per costruire una casa che fosse fondata sulla roccia. Ciriaco ha potuto farlo anche perché non è stato solo un uomo politico. Ha potuto farlo perché la sua politica è stata ispirata da qualcosa che veniva dall’esterno della politica: un po’ come la chiesa del Gesù dalla sede del partito? De Mita non a caso pensava – sono sue parole – che “la politica disumanizza, più la si riduce meglio è”. È l’espressione di una saggezza non comune in un uomo politico, il cui impegno assorbente spinge in genere – chi non ha una statura morale – ad esaltare tutto ciò che fa.

È bene oggi ricordare che la fede ha avuto un posto importante nella vita di Ciriaco. Non amava parlarne. In tante occasioni ha espresso le sue visioni e le sue idee, ma la fede era per lui – cito ancora – “una dimensione intima e discreta di cui preferiva non parlare”. La fede non coincideva per lui con quel clima “sacrale” in cui tutto, nel piccolo mondo rurale di Nusco, gli appariva immerso quando era bambino e adolescente. La fede per lui era piuttosto “una libera adesione personale” e una “radice profonda” cui continuare sempre a tornare. Il suo percorso di fede è stato segnato – in tempi diversi – dall’incontro con una serie di sacerdoti, che lui amava ricordare. Oltre a don Giuseppe Passaro, che per primo lo incoraggiò a studiare e a pensare, sono stati per lui importanti quelli che ha incontrato in Università Cattolica a Milano, come don Mario Giavazzi, mons. Carlo Colombo, don Filippo Franceschi e don Italo Mancini. La sua maturazione religiosa si è saldata, in modo sereno, a un’esuberante, talvolta tumultuosa, creatività intellettuale, alimentata da molteplici stimoli culturali.

Gli anni in cui ha frequentato l’università sono stati anni in cui il cattolicesimo italiano si veniva aprendo alla modernità non come esperienza conflittuale ma come dilatazione di orizzonti ricchi di promesse: i cattolici italiani sentivano allora di essere chiamati ad assumersi responsabilità sempre più grandi in un mondo in rapida trasformazione. Per De Mita politica voleva dire “risolvere i problemi” e richiedeva sia principi morali sia competenze adeguate. Di qui un approccio schiettamente laico alla politica, ma animato da valori profondi. Più volte ha ripetuto di non aver mai avvertito tensioni né tantomeno contrapposizioni tra la sua fede cattolica e le sue posizioni politiche, anche se più volte qualche ecclesiastico ha criticato le sue idee politiche o ostacolato la sua carriera. Penso che anche oggi ci sarebbe bisogno per il nostro paese, e non solo, di cattolici in politica che operano perché sentono il dovere – e perché no, anche un po’ l’orgoglio – di contribuire in modo incisivo alla costruzione della città terrena. Alla costruzione di quella casa fondata sulla roccia di cui abbiamo ascoltato dal Vangelo.

C’è chi a Ciriaco de Mita ha attribuito uno spirito contestatore, che in lui si univa a una timidezza nascosta da un’aggressività più apparente che reale. Si trattava, comunque, di una contestazione costruttiva. Fin da giovanissimo, ha fatto parte della Democrazia cristiana. Ma per lui l’aspetto organizzativo non ha avuto un’importanza preminente (almeno finché non ne è diventato segretario). Per lui, politica voleva dire anzitutto una costruzione culturale che il partito doveva poi realizzare. Insomma non era di coloro che dicono “Signore, Signore”, pensando di avere la verità in mano. Per De Mita, come ha detto molte volte, il partito “non è la Verità”, semmai è una “verità relativa, nel senso che è ricerca, alla luce di valori e di principi fermi, di soluzioni inevitabilmente contingenti”. Insomma, uno strumento al servizio non di se stesso ma di un obiettivo più grande che per lui significava: sviluppare la democrazia. La Democrazia cristiana – così pensava – non doveva lavorare per mantenere o ampliare il suo potere, ma per stabilire – in collaborazione con altri, compresa l’opposizione – regole comuni che permettessero una democrazia compiuta, comprendente anche l’alternanza di governo. Da questo nasceva la sua attenzione – non comune tra i politici del suo tempo – ai problemi istituzionali, volta non al perseguimento di un interesse di parte ma alla costruzione di una “casa comune”. Tale preoccupazione è stata anche alla base del suo speciale rapporto con Aldo Moro e che dovrebbe essere anche oggi l’obiettivo fondamentale di qualunque impegno politico.

A volte, una visione eccessivamente intellettuale della politica gli ha fatto commettere errori (altre volte invece ha saputo farsi carico con senso di responsabilità degli errori fatti da altri). Ma anche se talvolta esprimeva un pensiero molto complesso – scherzando, affermava che lui stesso non sempre capiva ciò che diceva – i problemi che cercava di risolvere sono stati quelli, molto concreti, degli italiani e delle italiane del suo tempo. È stato un attento osservatore della società italiana, dei suoi cambiamenti e degli squilibri che ne sono derivati. Ha avuto un’attenzione particolare alle aree più fragili del nostro Paese, a partire dal Mezzogiorno anche se non sopportava un meridionalismo “protestatario, lamentoso, anti-nordista”. Le sue battaglie avevano valenze non solo politiche ma anche morali. L’opposizione allo strapotere della televisione commerciale rispondeva alla preoccupazione per le conseguenze negative che in effetti ci sono state.

Travolto anche lui dalla fine del suo partito e della prima Repubblica, ha continuato a combattere, forte anche di un rispetto e di una stima da parte di molti che non sono venuti meno. Lo ha fatto lavorando – fino all’ultimo – a una riforma istituzionale che, se accolta, avrebbe aiutato la politica italiana a evitare molti passi sbagliati nei decenni successivi. Anche dopo il 1994, benché fosse considerato espressione di un passato da dimenticare, non si è arreso e ha continuato a fare politica, con il rigore intellettuale e morale che gli erano propri. Tra le molte lezioni che ci ha lasciato vorrei ricordare oggi, una sua limpida affermazione del 1984: “Noi democristiani concepiamo i rapporti internazionali soprattutto in termini di pace”. La pronunciò non solo denunciando un pericolo innalzamento della tensione tra Est ed Ovest ma anche le tante “guerre dimenticate” in Africa e altrove. E sull’Europa denunciava il pericolo di un ritorno dello spirito nazionalistico. Quarant’anni dopo è un insegnamento di grande attualità.

Cari amici ho voluto ricordare qualche tratto della vita di Ciriaco De Mita mentre sale al Signore la nostra preghiera con lui, nella certezza che le cose belle, le cose buone che ha fatto per il bene del Paese, dell’Europa e del mondo, sono parte di quella casa del cielo che Ciriaco ha iniziato ad edificare già da questa terra. Così l’Apocalisse: “Scrivi: d’ora in poi, beati i morti che moriranno nel Signore…essi riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono” (Ap 14,13).

sabato 14 maggio 2022

Messa a Sant'Ignazio per il Convegno di Teologia Morale


Oggi la Chiesa fa memoria dell’apostolo Mattia, che significa “dono del Signore”, eletto subito dopo l’ascensione di Gesù al cielo per ricomporre il gruppo dei Dodici. Per Luca, i Dodici hanno un posto particolare sia all’inizio del suo Vangelo con Gesù che li costituisce dopo aver passato la notte in preghiera (capitolo 6, 12-16) e all’inizio degli Atti nel brano che abbiamo ascoltato. Si doveva ricostituire il gruppo dei Dodici dopo la ferita provocata dal tradimento di Giuda. Era il simbolo dell’unità e dell’integrità del popolo di Dio (le dodici tribù di Israele). C’era, insomma, un’ansia di completezza della Chiesa così come Gesù l’aveva voluta, proprio mentre si accingeva a fare i primi passi. Andava colmato il vuoto lasciato da Giuda. Non era una questione organizzativa, non mancava una casella nella organizzazione della Chiesa, non c’era da fare la riforma. Il problema toccava il cuore stesso della Chiesa e della sua missione: l’intero popolo di Dio doveva comunicare il Vangelo ai popoli della terra.

Il criterio della scelta prevedeva che l’eletto avesse vissuto con Gesù per tutto il tempo dal battesimo sino alla risurrezione. Insomma, scrive Luca, un “testimone”. Nel linguaggio lucano questo termine è usato molte volte negli Atti (39 volte) e nel significato coincide il termine “apostolo”. L’apostolo, per Luca, non solo deve aver vissuto con Gesù, ma deve anche averlo compreso perché ne sia testimone. Il testimone ha un duplice legame, quello con il Signore e quello con coloro ai quali ci si rivolge. Mattia viene scelto, perché è stato con il Signore, ma deve ricevere lo Spirito perché la sua testimonianza sia efficace per coloro che lo ascolteranno. E’ bella questa parte del prefazio della liturgia ambrosiana per la festa di oggi: «Perché il numero degli apostoli fosse compiuto, rivolgesti un singolare sguardo d’amore su Mattia, iniziato alla sequela e ai misteri del tuo Cristo. La sua voce si aggiunse a quella degli altri undici testimoni del Signore e recò al mondo l’annunzio che Gesù di Nazaret era veramente risorto e agli uomini si era dischiuso il Regno dei cieli».

Care sorelle e cari fratelli, in Mattia – che appare solo in questo passaggio degli Atti – possiamo scorgere il nome dei discepoli di ogni tempo, anche il nostro nome. C’è bisogno nella Chiesa di ognuno di noi, ma non in vista di una testimonianza individuale, slegata dal resto del corpo della Chiesa. Il Vangelo è dato ai Dodici perché sia comunicato da tutti a tutti i popoli della terra. Questa tensione universale – che la Chiesa cattolica ha sentito in maniera straordinaria nel Concilio Vaticano II – va riscoperta con maggiore audacia e creatività in questo mondo globalizzato che purtroppo è preda di un nuovo e più insidioso individualismo che ha contagiato anche i cristiani sino a indebolirne colpevolmente la testimonianza. Potremmo dire che c’è ancora un vuoto nella Chiesa, che manca ancora Mattia nella compagine ecclesiale. E questo vuoto di testimonianza rende complici anche i cristiani delle guerre, delle ingiustizie, delle lacerazioni che stanno distruggendo la convivenza umana.

Questa festa di Mattia ci interroga sulla urgenza di una nuova creatività apostolica, di un nuovo slancio missionario, compresa una nuova responsabilità dei teologi. Mattia non è solo una persona. Oggi Mattia è il compito della Chiesa, di tutti i credenti, noi compresi, di una testimonianza più efficace, che fermenti il mondo evangelicamente, che aiuti i popoli a dirigersi verso un mondo di pace, di giustizia e di amore. La divisione tra le Chiesa è congeniale alla divisione tra i popoli. E la guerra in Ucraina, ma non solo, ne è una tragica conferma. Sono più che attuali le parole che il patriarca Atenagora – il patriarca dell’abbraccio con Paolo VI a Gerusalemme e poi a Roma – diceva agli albori della globalizzazione. Egli con lungimiranza denunciava il rischio di una globalizzazione che avveniva con le Chiese ancora divise. E ripeteva: “Chiese sorelle, popoli fratelli”. Se oggi i popoli non sono fratelli, non lo si deve anche alla mancata unità tra le chiese?

Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci porta nell’intimità dell’ultima cena, di Gesù con i Dodici. Gesù guarda il futuro della Chiesa. E non ha altro che quei Dodici. Non solo non dispera, anzi confida in loro. E affida loro la sua stessa missione esortandoli però a rimanere nel suo amore, quello che lui ha per il Padre. E’ questo l’amore che dona loro affidandolo alla loro testimonianza. E’ questo amore, l’agape che unisce il Padre e il Figlio, che deve unire i discepoli tra loro. Li chiama amici, non servi. E spiega: “Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. E’ di questo amore – non di un altro – che il mondo ha bisogno, oggi in maniera particolare. Sono i poveri, gli sconfitti, i profughi, gli anziani abbandonati che lo invocano. Oggi possiamo chiederci se Mattia, se il “dodicesimo apostolo”, non dobbiamo essere anche noi e tanti altri uomini e donne credenti che scelgono, che scegliamo, di spendere con maggiore generosità la nostra vita per il bene di tutte e di tutti, per l’unità tra i popoli, per l’avvento della desideratissima pace. E’ la Chiesa apostolica che deve muovere i suoi passi all’inizio di questo terzo millennio. Chiediamo al Signore che lo Spirito scenda su di noi, come scese su Mattia, perché possiamo trasmettere al mondo l’amore con cui siamo stati amati dal Signore perché il mondo trovi la via della pace.